la vita in fabbrica

Autori: Catia De Tommaso, Fabio Pensalfini, Alesia Teta

Sebbene Cristoforo Crespi fosse il “signor padrone”, si sentiva parte della vita lavorativa degli operai. Egli parlava abitualmente in dialetto, stava in mezzo ai lavoratori, li ascoltava e si rendeva conto dei loro bisogni. A partire da queste considerazioni, la critica storica è incline a parlare del fenomeno del “paternalismo” presente  nel villaggio operaio di Crespi d’Adda: con questo termine di solito si intende un atteggiamento di benevola superiorità e di esibita premura tenuta dal datore di lavoro verso il dipendente. In questo caso il termine abbandona la connotazione polemica e negativa con la quale viene di solito intesa, in quanto i termini di tale rapporto erano reciprocamente e liberamente accettati dalle parti come piacevole modus vivendi sociale. L’imprenditore agisce in base a precise strategie economiche in base alle quali un migliore ambiente di vita e di lavoro, un’esistenza moderata e regolare, comuni bisogni e aspirazioni operaie, avrebbero rafforzato il legame dell’operaio con la fabbrica accelerandone il rendimento e la produttività. Si parla dunque di “paternalismo capitalistico” intendendo in questo modo che la finalità ultima delle azioni promosse dalla famiglia Crespi per migliorare le condizioni di vita e lavoro dei propri operai, è il guadagno di capitale.

Nonostante l’aperta personalità dell’imprenditore, gli operai mantenevano una rispettosa distanza: non solo per il clima sociale del tempo e per l'abitudine a sottomettersi al padrone, ma anche a causa della paura di perdere il posto, una promozione o una raccomandazione. Il timore reverenziale degli operai nei confronti del Crespi era dettato inoltre dalla consapevolezza acquisita dalla prima generazione operaia, dei vantaggi offerti dal lavoro di fabbrica, soprattutto se paragonato al lavoro nei campi che aveva contraddistinto la loro vita famigliare precedente l’avvio della produzione del cotonificio di Crespi. La vita contadina, scandita dai ritmi del sole e delle stagioni, era faticosa ma soprattutto precaria: era sufficiente un imprevisto evento atmosferico avverso e si poteva dire addio al raccolto stagionale, invece l’operaio godeva di un lavoro stabile e sicuro e di uno stipendio fisso, un paradiso insomma anche se scandito dal tempo meccanico dell’orologio situato ai piedi della ciminiera, che regolava i lunghi turni di lavoro.

Eppure il lavoro in fabbrica presentava in realtà numerose controindicazioni: il rischio di gravi infortuni, la temperatura elevata, l'umidità inevitabile, la perniciosa polvere del cotone. A causa di tutte queste evaporazioni malefiche  la salute degli operai spesso ne risentiva,soprattutto a livello respiratorio dato che l’inalazione di queste polveri causava irritazioni all’apparato respiratorio ,fino a provocare la cosiddetta“pneumonia del cotone”. Nei registri degli ospedali si contavano numerose vittime di questo male tanto che già dalla metà del XIX sec. si aveva piena coscienza di ciò che gli operai dovevano sopportare nella fabbrica di Crespi. Da questo periodo in poi si incominciò dunque a prendere provvedimenti come per esempio ammettere nelle fabbriche solo coloro che avevano un’età superiore ai dieci anni in modo che la salute dei più piccoli venisse preservata. I più piccoli avevano così la possibilità di recarsi a scuola, la quale era privata, e ricevere una formazione di base, che consentiva loro di apprendere i rudimenti del leggere e dello scrivere, fondamentali per affrontare in seguito il lavoro in fabbrica.  Misure come questa, costituirono i primi passi verso l’acquisizione di una coscienza di tutela e rispetto nei confronti del lavoratore non solo dentro la fabbrica ma anche al di fuori.

A questo proposito, l’imprenditore, a causa dei numerosi infortuni accaduto in fabbrica, si rese conto che era necessario un supporto medico-infermieristico in grado di intervenire in caso di emergenza. Per questo  l’occhio vigile del medico del villaggio non abbandonava mai l’operaio: l’ambulatorio attrezzato anche per le piccole operazioni chirurgiche d’emergenza rappresentava in certi casi la salvezza del lavoratore, in quanto situato a pochi passi dalla fabbrica.

Ulteriori misure a tutela dell’operaio vennero introdotte in particolare da Silvio Crespi che succedette al padre Cristoforo nel ruolo di imprenditore alla guida dello stabilimento di Crespi e che fece della lotta a sostegno delle tutele operaie, il cavallo di battaglia della sua azione politica di deputato del Parlamento italiano.

All'inizio del 1899 la fabbrica ospitava 1000 lavoratori, solo tre anni dopo gli operai erano divenuti 1320 grazie all'ampliamento dei macchinari che in quel periodo consistevano in 36.600 fusi per filatura, 8430 fusi di ritorcitura e 320 telai meccanici per la tessitura.

Tra  il 1913-1914, alla vigilia della Grande Guerra, l'azienda attraversò un momento non facile. La situazione comunque si ristabilì durante la I guerra mondiale perché Crespi d’Adda fu il luogo di produzione della speciale tela per aeroplani, la quale favorì il rilanciò dell’economia della fabbrica. Il numero massimo di operai impegnati in fabbrica fu di 3600, non tutti residenti nel villaggio.

Fonti:
Luigi Cortesi “Crespi”;
sito web www.crespidadda.it;
Luigi Cortesi “Una vita Benigni Crespi Jr. si racconta.